Un terapeuta familiare legge “Capodanno da mia madre”

Il buon funambolo sa
che il vero vuoto sta sopra di lui

Capodanno da mia madre è un romanzo familiare, un romanzo sulle perdite, un romanzo di solitudini taciute costruito “sui fili invisibili che uniscono e separano“. Un romanzo che richiama con meticolosa dedizione tutto ciò che avviene nella vita come fosse un fenomeno fisico:

caduta – colpo – ondulazioni – calma.

Azione – Reazione.

Fisica, la vita e la morte.

Duecentosettantadue pagine che si svolgono nel giro delle poche ore in cui avviene il Cenone di Capodanno, definito dall’autore come una vera e propria bomba ad orologeria. Non il cenone in sè, quanto la dinamica delle famiglie. “Capodanno da mia madre” è un libro che lascia tutto il tempo di entrare, lentamente, nelle dinamiche familiari. E senza alcun dubbio nel corso delle pagine provoca un crescendo di emozioni che termina con il rimbombo dell’esplosione.

[…] Questa sera potrebbero confluire a tavola momenti, energie e smancerie così contrastanti, così a lungo repressi, che forse è ciò che mamma sta aspettando da tempo. Una serata di conversazioni tranquille e di pace diventerà però una piccola spiaggia dove presto arriveranno i resti di vari naufragi, con i bauli pieni di cose personali, di vestiti fradici e di bottiglie con dentro un messaggio. E con loro tutti i sopravvissuti.

Abbiamo Amalia (la mamma), Silvia ed Emma (le figlie) e Fernando (il figlio narratore) che recitano maestralmente una piece familiare composta da trame tessute in sotterraneo tipiche di ogni famiglia. E’ una famiglia che si è trovata a dover abolire l’ordine naturale delle cose nell’intento di sopravvivere e nella quale forse si fugge dalla figura maschile: Amalia ha riscoperto il suo lato B dopo che il marito l’ha mollata, Silvia ha deciso che può bastare a se stessa, Emma ama le donne (nel desiderio inconscio di fuggire da un maschio che corre il rischio di essere come suo padre?), Fernando ama gli uomini (nel desiderio inconscio di ristabilire una figura maschile positiva nella sua vita, in sostituzione al padre?).
C’è anche lo zio Eduardo seduto a tavola con loro. Ognuno di loro ha un fantasma in testa (chi non ne ha?!), una relazione passata o presente che li guida a ciò che sono oggi. In fondo “tutti siamo stati qualcosa che il più delle volte spiega ciò che siamo adesso”.

Tutto merito di Alejandro Palomas (l’autore), che muove i fantasmi abilmente, presentificandoli, accostandosi al dolore di ognuno utilizzando innumerevoli metafore che nel corso del testo scorrono potenti (le impalcature o le casseforti per il sistema familiare, le onde dell’oceano che portano via la vita con sè, ecc). Ognuno dei personaggi ha un lato A (ciò che appare) ed un lato B (ciò che sarebbe se si lasciasse andare…). Nel libro ognuno di questi lati B è il frutto di un trauma, di un lutto “non risolto”, e diventa un vuoto da riempire. Ognuno di questi fantasmi occupa una sedia, la sedia vuota. In fondo gli assenti fanno parte della nostra famiglia, sia che siano silenziosi o segreti, pesanti o leggeri. E sugli assenti si fonda la migliore efficacia per la psicoterapia.

Silvia (lato A) è fatta d’acciaio. Lo era e lo è ancora. Iniziò quand’era piccola e, crescendo, i suoi spigoli diventarono sempre più definiti e duri: gli occhi quasi trasparenti, gli zigomi sporgenti, magra e con le ossa bene in vista, le clavicole, i gomiti, le anche, le caviglie. I capelli rossi. Molto rossi. Come i miei (di Fernando, nds). Come quelli della nonna. Silvia (lato B) deve controllare necessariamente ogni cosa per non cedere il passo al disordine. La Silvia lato B è iperattiva, modalità che le permette di non essere risucchiata dal silenzio doloroso che le ricorda il suo lutto, e si limita ad esistere e vivere più con la testa che con il cuore. Quella seduta attorno al tavolo è una Silvia disarmata dalla debolezza degli altri che non sa accettare l’emozione pura, soprattutto se arriva senza preavviso.

Emma (lato A) è una donna dai capelli tagliati male con un’attenzione eccessiva al risparmio economico, che acquista indumenti di seconda mano e “ha la faccia piena di rughe precoci perchè non c’è stato modo di farle capire che alla sua età le creme non sono un lusso ma una necessità“. Poi c’è la Emma del lato B, che conoscono solo in pochi, disposta quasi a tutto perchè qualcuno possa guardarla e vederla, da quando, un pomeriggio di molti anni fa, la vita la spezzò in due. […] Il lato B di Emma è graffiato, come se fosse una lavagna segnata ogni giorno da un’unghia affilata, per anni. […] Emma ha bisogno di quel rumore stridente che fa accapponare la pelle, ne ha bisogno per esistere.

Fernando invece ha perso. Non ha saputo perdere. E si è perso: “[…] Nella mia mappa del tesoro ho confuso le coordinate. Con la fretta che avevo di sanare le ferite nelle quali non avevo più voglia di curiosare, sbagliai a credere che chiudere una casa significasse chiudere tutto ciò che abbiamo vissuto al suo interno, che si possa iniziare da zero semplicemente fuggendo e cambiando scena e sequenza“. Fernando ha una fottuta paura di soffrire nuovamente che preferisce non vivere la vita.

La famiglia diventa così un’impalcatura tenuta da viti che sostengono l’esistenza. Quando una vite cade rotolando sull’asfalto nessuno se ne preoccupa. Ma quando quella vite è il pezzo che sostiene l’intera impalcatura allora te ne accorgi, e probabilmente è troppo tardi. E’ così che nel giro di poche settimane il ponteggio viene distrutto. E’ con questa metafora che Fernando racconta la rottura del rapporto tra suo padre e sua madre (e tra lui e suo padre). E credo sia proprio l’assenza paterna il motore che muove le dinamiche familiari, in cui ognuno è preoccupato dell’altro senza che gli si riesca ad accostare. Ma in apparenza. Perchè alla fine del libro qualcosa accade.

In fondo, tra tutte queste maschere, il vero significato del libro è proprio la citazione iniziale, tratta da un’affermazione di Virginia Woolf (recitata da Nicole Kidman) nel film The hours, “non si può trovare pace evitando la vita“. Come dire, non vi sono scorciatoie al dolore, che richiede di essere attraversato e di cui va tollerata la frustrazione.

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