Il dolore cronico affligge circa un quarto della popolazione italiana, rappresentando un serio ostacolo al benessere dei pazienti e dei loro familiari, oltre che un costo sanitario non indifferente. Ma come viene affrontato dai vari punti di vista e dalle varie discipline? E quali sono le strategie migliori?
E’ unanimemente riconosciuto che l’esperienza del dolore cronico è multifattoriale, comprendendo non solo gli aspetti sensoriali ma anche quelli emozionali e cognitivi, oltre che quelli sociali. Da tutto ciò è implicito il surclassamento del principio cartesiano nocicettivo, secondo cui una lesione del corpo provoca uno stimolo nel cervello che lo tramuta in dolore, aprendo le porte a quello che è il modello biopsicosociale, in cui appunto elementi diversi diventano i componenti dello stimolo dolore (fattori biologici, psicologici e sociali). E’ un pò come passare dalla bidimensionalità del mondo (fantascientificamente discussa nel racconto Flatlandia di Edwin A. Abbott) a quella che è la visione reale, ossia tridimensionale.
La “tridimensionalità” del concetto di dolore ci fa immaginare quanto sia necessario agire su più fronti per una più fausta prognosi, non solo quindi dal punto di vista medico, ma accompagnando ad esso quello che è definito un approccio interdisciplinare, concetto per il quale diverse discipline affrontano gli stessi temi combinandoli tra loro. Inutile dire quanto sia un approccio poco utilizzato nel contesto della sanità italiana, che predilige invece al massimo un approccio multidisciplinare (quello in cui diverse discipline affrontano lo stesso tema, ma agendo ognuna nel proprio “quartier generale”).
Eppure già John Bonica (riconosciuto come il padre fondatore degli studi sulla gestione del dolore) nello scorso secolo aveva riconosciuto come la consultazione con altre figure risultava essere di beneficio a tutte le figure coinvolte, oltre che al paziente con dolore.
Memori di queste premesse possiamo con certezza immaginare quanto il dolore cronico sia un lungo e penoso ostacolo all’esistenza, che pone l’individuo fuori dal mondo, lo separa dalle sue attività, anche da quelle che amava; affina il senso di solitudine, costringe l’individuo ad una relazione privilegiata con la sua sofferenza.
Il dolore cronico è associato oltre che ad una serie di patologie psichiatriche, anche ad una diminuzione della qualità globale di vita, senza peraltro dimenticare che la depressione è il primo disturbo (del campo “psi”) che spesso si presenta in comorbidità ad un dolore (cronico), con percentuali che sfiorano il 60% (Robinson et al., 2009).
Per far capire l’importanza di un approccio interdisciplinare presenterò di seguito uno studio giapponese condotto dall’ottobre 1997 al settembre 2004 presso un centro algologico giapponese. Sembrerebbe una cultura poco confrontabile, quella giapponese, a quella italiana. In parte è vero, ma due sono le ragioni che la rendono (parlando di dolore) simile a quest’ultima: sebbene il Giappone sia uno dei Paesi più sviluppati al mondo, sembra essere uno degli ultimi riguardo la terapia antalgica e tale situazione non appare molto distante da quella italiana. Il Giappone inoltre è la nazione con il più alto tasso d’invecchiamento al mondo, superiore solo a quello italiano e questa è la seconda situazione che accomuna i due Paesi, essendo la tematica del dolore molto invalidante per la popolazione anziana.
Nello studio sono stati inclusi tutti i pazienti giapponesi con dolore cronico non oncologico già sottoposti a terapia antalgica convenzionale senza trarne benefici significativi.
Risultati finali? Beh, dopo un trattamento interdisciplinare il 68,9% dei pazienti aveva ottenuto una significativa riduzione dell’intensità del dolore, il 92% aveva smesso di abusare di farmaci, il 51,4% ha portato avanti le normali attività quotidiane senza essere disturbato dal dolore e il 75% che si era precedentemente ritirato dal lavoro, ci è ritornato.
Questo studio ribadisce l’importanza dell’approccio integrato al paziente con dolore cronico per ottenere ottimi risultati. E’ soprattutto in Medicina Generale che possono essere valutati tutti gli aspetti connessi al dolore (psicologici, funzionali e relazionali), soprattutto quello cronico non oncologico che, se adeguatamente considerati e trattati, possono costituire un cardine terapeutico fondamentale.
Molte altre cose ci sarebbero da dire rispetto al trattamento interdisciplinare del dolore cronico come i meccanismi di legame tra dolore acuto ed ansia, o ancora l’utilizzo della Mindfulness…e tanti altri (ho già accennato al legame tra dolore cronico e depressione)…ma mi riservo di scriverli a breve in un nuovo articolo.
Una figura di sostegno e supporto psicologico in un contesto antalgico, per la corretta gestione del dolore è quantomai essenziale in questo periodo di incertezze (valoriali, sociali, economiche, lavorative)! La speranza è che si possa andare sempre più nella giusta direzione di interdisciplinarietà.
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BIBLIOGRAFIA:
Edwin Abbott Abbott (1884). Flatlandia: storia fantastica a più dimensioni, traduzione di Masolino d’Amico, collana gli Adelphi, Adelphi, 2003, pp. 166, ISBN 88-459-0982-4.
Kitahara M., Kojima K.K., Ohmura A. (2006). Efficacy of interdisciplinary treatment for chronic non-malignant pain patients in Japan. The clinical journal of pain; 22 (7):647–655.
Robinson, M.J., Edwards, S.E., Iyengar, S., Bymaster, F., Clark, M., Katon, W., (2009). Depression and pain. Frontiers in Bioscience; 14, 5031-5051.
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