Forse non tutti sanno che una sentenza della corte d’assise di appello di Trieste (sentenza 5/2009) ha spalancato gli scenari neuroscientifici in tema di imputabilità e responsabilità. Il nuovo trend che emerge da queste pietre miliari è quello secondo cui il giudice, nell’esaminare la posizione dell’imputato, inizia ad affidarsi anche a indagini neuroscientifiche e morfologiche sul cervello e sul patrimonio genetico. Di qui l’importanza che riveste la figura dello psicologo (appositamente formato in tema forense) nelle collaborazioni con avvocati e giudici (in ambito civile e penale).
Di seguito cercherò di spiegare qual è lo scenario odierno in tema di imputabilità e responsabilità. La storica sentenza di Trieste ha permesso la vittoria della paradossale e controversa conclusione che “non è colpa mia ma dei miei geni, se sono un assassino“, con indagini ad opera di studiosi italiani e pubblicata su Nature). Ho personalmente seguito (per formazione e lavoro) i casi successivi che si sono basati sulla sentenza di Trieste e ne esporrò di seguito alcune considerazioni storiche e cliniche.
Grazie a Lombroso fu sviluppata la concezione patologica e deterministica dell’uomo delinquente: “l’uomo delinquente è una varietà infelice d’uomo […] più patologica dell’alienato”, “un uomo, costrutto diversamente dagli altri nell’organo del pensiero, che doveva diversamente dagli altri essere responsabile delle sue azioni”.
I manicomi criminali, più noti come Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) su sollecitazione di Lombroso furono aperti a “coloro che furono spinti al delitto da una abituale, evidente infermità come: pellagra, alcolismo, isterismo, malattie puerperali, epilessia, mala costituzione del cranio”. Egli inoltre sosteneva che “gli individui riconosciuti abitualmente pericolosi e sottoposti a vari processi, non potranno essere dimessi mai; gli alienati a follia istantanea, od intermittente, che offrono segni di perfetta guarigione, saranno segnalati per la dimissione dopo uno o due anni di osservazione, ma sottoposti, dopo la loro uscita a visite mediche mensili per molti anni di seguito” (Lombroso, 1871-3).
I principi generali della scuola lombrosiana non furono accolti inizialmente dal codice penale approvato nel 1889 (Codice Zanardelli) ma influenzarono fortemente l’elaborazione del codice penale italiano attualmente in vigore, il codice Rocco, approvato il 19 ottobre 1930.
A partire dalla sentenza della Cassazione del 2005, anche la presenza di un disturbo grave di personalità potrebbe condurre ad un’eventuale “esenzione” dall’imputabilità.
In questi ultimi decenni il campo è spianato anche dall’entrata sempre più incisiva, nel mondo giuridico, delle neuroscienze cognitive. I passi in avanti della ricerca scientifica nell’ambito delle neuroscienze possono contribuire ad un avanzamento delle indagini tipiche della psicologia forense e quindi a migliorare il tasso di oggettività nelle perizie. Cruciale non è tanto l’entrata delle neuroscienze nell’ampio palcoscenico giuridico, ma nello specifico nel concetto penale di imputabilità.
Nei prossimi articoli tratterò la questione dell’imputabilità, poi verranno trattati gli ultimi risvolti in tema di imputabilità e neuroscienze, con le novità apportate al sistema italiano dal caso di Trieste (parte successiva), infine saranno comparati un caso giudiziario concluso, e uno tuttora aperto, di imputabilità, per dimostrare come l’utilizzo delle neuroscienze ne abbia ribaltato (o ne potrebbe ribaltare) il giudizio finale.
L’articolo 85 del nostro codice penale stabilisce che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui l’ha commesso, non era imputabile“, e specifica che “è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere“.
La teoria più antica, che per lungo tempo ha dominato e che ancora oggi ha numerosi sostenitori, è quella della Scuola classica, che nasce in pieno illuminismo, che fonda l’imputabilità sul libero arbitrio, cioè sulla facoltà di autodeterminarsi secondo una libera e totale scelta della propria volontà.Secondo tale indirizzo la pena, in quanto castigo per il male commesso, ha senso se l’uomo ha volontariamente e consapevolmente scelto la violazione della norma, pur avendo, invece, la possibilità di sceglierne l’osservanza.
Da questo deriva che gli individui affetti da anomalie psichiche o comunque immaturi, non essendo liberi – perché privi di questa libertà di scelta fra il bene e il male – non possono essere biasimati per il male commesso e quindi non possono essere puniti; e inoltre, si aggiunge che in caso di una libertà non del tutto assente, ma limitata, la pena dovrà essere diminuita.
Per la Scuola positiva il principio cardine in base al quale si devono spiegare tutti i fenomeni, fisici e psichici, individuali e sociali, è il principio di causalità. E sulla base di tale presupposto, per i positivisti, il delitto è il prodotto non di una scelta libera e responsabile del soggetto, ma di un triplice ordine di cause: antropologiche, fisiche e sociali. Per la concezione positivista ilreato è un fenomeno naturale e sociale, un fatto umano individuale, indice rivelatore di una personalità socialmente pericolosa.
Dal momento che anche i fatti psichici sono sottoposti al principio di causalità (determinismo psichico), il libero arbitrio – considerato una illusione psicologica – non ha più senso. Date queste premesse la Scuola positiva arriva inevitabilmente a negare la stessa categoria dell’imputabilità e la distinzione fra soggetti imputabili e non imputabili. Se infatti la sanzione penale serve solo come strumento per impedire la commissione di crimini, non vi è motivo per escludere dalla sua applicazione gli autori di reato infermi di mente.
Nelle prossime settimane, per non appesantire la lettura, parlerò dell’attuale disciplina in tema di imputabilità e delle cause che permettono l’esclusione o l’attenuazione, dell’imputabilità.
Bibliografia:
Totaro, S. Imputabilità e Neuroscienze: spiegare di più per comprendere meglio. Tesi di master in Psicopatologia e Neuropsicologia Forense discussa nel 2010 presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Padova.