Ma con i suicidi la vera pietà è il silenzio

Ripropongo un articolo/discussione pubblicato il 30 marzo 1998, (27) da Giorgio De Rienzo su “Il Corriere della Sera”

Ma con i suicidi la vera pietà è il silenzio

“A proposito di un’intervista a Primo Levi pubblicata recentemente Ma con i suicidi la vera pieta’ e’ il silenzio Viene fuori un’intervista di una studentessa a Primo Levi. Alla domanda sul suicidio di tanti ex – detenuti nei lager nazisti, Levi risponde: “Nessuno, secondo me, e’ in grado di capire un suicidio. Per lo piu’ non lo capisce neppure il suicida: e’ raro che chi si uccide sappia la ragione per cui lo fa“. E’ una ben strana notizia questa non – notizia, su cui si sono fermati “La Stampa” e “la Repubblica”. Porta pero’ un insegnamento importante, quasi che Levi voglia denunciare l’assenza di pieta’ nel curioso indagare sui motivi del suicidio, nel discuterlo, nel negare soprattutto un silenzio dovuto. Un silenzio che consenta di riflettere, con angoscia, su un’immensa dilaniante solitudine, che ci rende responsabili tutti insieme; un silenzio che permetta di pensare, con dolore, su una grande debolezza, nella quale ci troviamo pienamente coinvolti; per amarla, se possibile, oltre che per rispettarla. Troppo spesso si asseconda un bruttissimo vizio: lo spazio di silenzio naturale per una forte commozione va occupato, a ogni costo, da un parlare fitto fitto. Un mistero intoccabile deve essere svelato con qualsiasi invenzione di dettagli: purche’ venga annullato, sull’istante, lo sgomento di un vuoto insoffribile. Purtroppo sono stato costretto, da una tragedia familiare, a riflettere sul suicidio. Non pretendo di capire (e forse non voglio neppure) il perche’ di un gesto che ha in se’ una forte violenza, per chi resta solo, spaventato, stupefatto. Ricordo un colloquio, fra i molti, che ho avuto con Levi. Mi disse di non aver mai pensato al suicidio dentro il lager, ma di averci pensato molto dopo. Mi ricordo il racconto di un suo sogno ricorrente: salvarsi dal lager, tornare, narrare la sua storia alla propria sorella e non essere creduto. Ho sempre avuto l’impressione che parlando della “sorella” Levi parlasse di una parte nascosta di se’. Forse anche lui, pur narrandolo nei suoi libri, non credeva, in una parte segreta di se’, alla propria esperienza inaudita di orrore. Quando ci ha creduto non ha retto. Il suicidio forse nasce dal vedere, dal toccare con mano, la bruttura del mondo, l’assoluto del male; da un addossarsi, con dolore infinito, su di se’ il peso di un male profondo, fino a dare la propria vita, per pudore di svelare agli altri un orribile male, per salvarsi da una conoscenza che non si puo’ sopportare. E allora questo gesto, che non consente un giudizio e reclama il rispetto del silenzio, puo’ concederci solo il privilegio di amare chi l’ha fatto, per la grande sofferenza che ha patito.”

Per il profondo rispetto verso ogni singola parola di questo profondo articolo non v’è bisogno d’aggiungere altro, ma sentivo la necessità di rispolverarne il contenuto che risale quasi a vent’anni fa.