Commento personale all’articolo “Suicidio e creatività: il caso di Sylvia Plath” di Mark Runco pubblicato sulla rivista Death Studies, 22: 637-654, 1998.
Molti non conosceranno la figura di Sylvia Plath, poetessa americana tra le più controverse dello scorso secolo. Molti si chiederanno cosa c’entri Sylvia, con la psicologia. Beh, prima di tutto è stata una delle prime che ha contribuito al genere della poesia confessionale, ma la sua personalità, in seguito al suo suicidio, è stata (ed è!) motivo di studi approfonditi da parte di psichiatri e psicologi in tutto il mondo.
Non parlerò qui di Sylvia, ne ho già scritto in precedenza.
Ciò che io credo però, è che sia a dir poco GENIALE. Ne parlo al presente poichè le sue opere rappresentano a tutt’oggi un generoso dono per chi come me si occupa di capire i tortuosi animi degli individui. Il suo intimismo senza eguali riversato nelle migliaia di righe scritte vorticosamente e bulimicamente come unica ragione di esistere ha fatto sì che la lettura di esse equivalesse ad una personale ed approfondita conoscenza di Lei.
L’articolo esplora l’idea secondo la quale seppur si possa imparare molto osservando la poesia di Sylvia Plath come espressione del suo pensiero, ulteriori approfondimenti sono necessari per tentare di avvicinarsi (in punta di piedi, nds) alla sua sofferenza e tentare di capire la sua depressione, spesso vista come il risultato della sua scrittura. Coerentemente con questo, l’interpretazione che ci fornisce l’autore è quella di un enorme investimento della Plath nei confronti della sua scrittura. Enorme investimento che può aver contribuito ad affinare le corde della sua sensibilità e dunque averla predisposta a stress e depressione.
Nell’interessante excursus del testo molti sono i riferimenti ad un tentativo di comprensione dell’autore stesso, quasi quella comprensione che ogni sopravvissuto al suicidio tenta di raggiungere. Perchè Sylvia ha deciso di togliersi la vita? Perchè niente e nessuno era in grado di prevenire? Possibile che la sua arte, sublimazione delle sue angosce, più che tenerla aggrappata alla vita, l’abbia (paradossalmente) portata a spegnerne l’interruttore?
L’autore, Mark Runco, offre nuove ipotesi sul legame che intercorre tra la creatività e il suicidio. E le esplica utilizzando un approccio deduttivo, iniziando dalle teorie generali sull’argomento e vestendole sul caso specifico di Sylvia Plath.
L’autore, poi, conscio di rischiare nell’utilizzo di un linguaggio forte nel connettere la depressione di Sylvia a “mero risultato scatenante dalla sua scrittura” sente l’esigenza di sancire una visione bidirezionale di causalità.
Detto ciò egli ipotizza che l’enorme investimento della Plath nella sua scrittura avrebbe potuto affinare la sua sensibilità, così predisponendola alla sua depressione. L’autore giustifica tale affermazione traendo spunto dalla letteratura sull’argomento, in base alla quale il suicidio non sarebbe un comportamento temperamentale ma il risultato di una consistente parte dovuta allo sviluppo e all’esperienza.
Perchè i poeti? Dice Runco che le persone creative in generale ma i poeti nello specifico sono maggiormente inclini a commettere suicidio. Secondo Kay Redfield Jamison, citata dall’autore del presente articolo, i poeti avrebbero una probabilità cinque volte maggiore di commettere suicidio.
Ad ogni modo il background culturale di Sylvia Plath era molto simile a quello di molte persone creative, in primis la perdita precoce di un genitore (ritrovata anche nella vita di Luca Flores, pur con sfaccettature e significati diversi), considerata da uno studio psicoanalitico citato nel testo come uno dei maggiori predittori del praticare una professione creativa. Molte persone creative, inoltre, sono così devote da essere quasi immerse nella loro passione/professione e quanto più l’individuo ha investito in qualcosa tanto più egli ha da perdere nel caso di un fallimento o un mancato riconoscimento di quel qualcosa (qualche attinenza con l’odierno “fenomeno” degli imprenditori che in seguito al fallimento della propria azienda perdono la propria identità, il proprio status, rischiando il crollo?! Chissà! nds). Sylvia non aveva investito molto nella sua opera, ma tutta se stessa e la sua opera era la sua stessa ragione di vita.
L’autore conclude, un pò amaramente e forse provocatoriamente, che “scrivere è una professione a rischio, un’area di rischio nella quale investire il proprio futuro“.
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