(Ballad di Ryan Adams dedicata a Sylvia Plath. Mi piace accostare le opere di Sylvia alle sensazioni che suscita questa musica alle orecchie di chi la ascolta: malinconia e irraggiungibilità!)
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“Morire
È un’arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in modo eccezionale.
Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammettete che ho la vocazione.
È facile abbastanza da farlo in una cella.
È facile abbastanza farlo e starsene lì”.
Lady Lazarus
Inginocchiata. Lo sportello aperto. Il gas inizia ad inondare le narici, ma senza far paura. Scorre lentamente nei polmoni e più nessun odore si avverte. China la testa. Per farla entrare nella stufa deve piegarsi e stringere le spalle, senz’altro l’esile capo e i capelli corti l’aiutano: ci s’infila appoggiando la guancia sul fondo. Non è una campana di vetro (The bell Jar, sua opera, nds), non ha pareti lucide e trasparenti; è tutto nero, tutto unto, la faccia si sporca e i capelli s’appiccicano. Non piange. No, non piange Sylvia. E’ determinata, sa cosa fa. Conosce la morte. Parlava del suicidio quasi nello stesso tono con cui parlava di qualsiasi altra cosa: con urgenza, con violenza, ma senza alcuna commiserazione. Sembrava sfidarla, la morte. Ma la vita aveva avuto sempre la meglio. Fino ad allora.
L’ho rifatto
Un anno ogni dieci
Ci riesco
E io sarò una donna che sorride.
Non ho che trent’anni.
E come il gatto ho nove vite da morire.
Questa è la Numero Tre.
E’ sempre resuscitata, come Lazzaro (Lady Lazarus è una sua opera, scritta pochi mesi prima, che narra di una donna che ha il terribile dono di poter rinascere, nds). Ma forse non sa che questa volta non riaprirà gli occhi sullo schermo della vita, ma altrove. Sa anche che ci si addormenta, tranquillamente e senza dolore. Una fine dolce. Apre la bocca. Respira a fondo e riempie i polmoni. Respiro dopo respiro. La vista si annebbia e il confine con la vita si accorcia. E’ tutto così dolce oggi, penserà. E’ l’ 11 febbraio 1963. E’ la fine. Desiderata da tempo. Forse non voluta realmente, chi lo sa. Ma, ecco, la fine. Facile. Tormentata. Angosciante. Docile. Come lei. E’ giunta come fosse il sonno. E’ giunta a porre candore a quell’autostrada di pensieri viaggianti a velocità elevata. Aveva organizzato tutto, per accudire i suoi piccoli, Frieda e Nicholas. Dormivano nella camera accanto. Ancora una volta doveva accudirli. Ancora una volta voleva accudirli. Ancora in un ultimo gesto. Aveva lasciato accanto ai loro letti fette di pane imburrato e ciotole di latte. Aveva spalancato loro le finestre e sigillato la porta con dei panni, affinchè il suo veleno non giungesse ai loro cuori. Un’infermiera andò qualche ora dopo a trovarla, come promessole dal medico il giorno prima che l’aveva trovata agitata. Ma trovò solo la porta serrata e nessuna risposta. Era troppo tardi. Sylvia aveva già inseguito i suoi demoni. Quando forzarono la porta il suo viso, candido e poetico come la sua metrica, giaceva nella stufa, su di un panno. I bambini si erano svegliati, ma piangevano nella camera freddissima.
Poco più che trentenne, con alle spalle pochi libri e molte porte di editori sbattute in faccia. Sul suo tavolo tutte le poesie scritte in poche settimane, durante quell’afflato sacro maniacale che sembrava rincorrere il suo senso di inferiorità. Sylvia non scriveva solo di getto, era maniacale nel suo modo di confessarsi al mondo. E doveva farlo eccezionalmente, sublimando ciò che era invece stata la sua vita. Non a caso nel suo diario si definisce “la ragazza che voleva essere Dio”, in quanto la costante ricerca di perfezione e il costante sentirsi inferiore agli altri avevano reso la sua personalità inauditamente fragile da farla cadere. Sylvia consegna lo scettro della sua grandezza poetica agli Dei dell’olimpo. Peccato non aver potuto vedere coi suoi stessi occhi, la sua magnificenza.
Una curiosità sulla vita di Sylvia (ma che rispecchia la triste vicenda di altre vite artistiche di cui scriverò in seguito) è rappresentata dalla triste trasmissione (culturale? Familiare? Sociale? Genetica?) del comportamento suicidario. Sei anni dopo anche la nuova compagna di Ted Hughes (marito adultero di Sylvia), Assia Wevill, si toglie la vita allo stesso modo e portando con sè anche la figlioletta della coppia. Nicholas Hughes, figlio di Sylvia e di Ted, porta dentro di sè per 46 anni il dolore di essere un sopravvissuto al gesto di sua madre raggiungendola, impiccandosi, 46 anni più tardi, nel 2009. Amelia Rosselli, traduttrice italiana della Plath, che muore trentatre inverni dopo, il suo stesso giorno, l’11 febbraio.
Tutti accomunati dalla vita, quella vita troppo cruda per i loro animi sensibili.
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